Questa mattina, alle ore 10.30 nella Basilica Cattedrale di Otranto si è tenuta la Solenne Concelebrazione Eucaristica in onore dei Santi Martiri di Otranto, presieduta da S.E. Mons. Giuseppe Mengoli, Vescovo di San Severo e concelebrata da S.E. Mons. Francesco Neri, Arcivescovo di Otranto, da S.E. Mons. Donato Negro, Arcivescovo emerito di Otranto, da S.E. Mons. Bruno Musarò, Nunzio Apostolico emerito, da S.E. Mons. Franco Coppola, Nunzio Apostolico in Belgio e Lussemburgo, dal Capitolo Cattedrale, dai Presbiteri, Religiosi e Diaconi dell’Arcidiocesi. Presenti anche i nostri Seminaristi.
La Celebrazione Eucaristica è stata animata dal Coro dell’Arcidiocesi di Otranto diretto dal Can. Biagio Mandorino.
L’omelia di Mons. Giuseppe Mengoli
Non posso nascondere la gioia e l’emozione per essere qui.
Grazie, Padre Francesco, per il graditissimo invito a presiedere questa celebrazione.
Mi sento sostenuto dalla tua fraterna vicinanza e dalla tua sincera amicizia. Grazie, soprattutto, perché fin dal primo istante della nomina episcopale stai amando questa bella diocesi per la quale ti spendi con saggezza e generosità. Porgo un affettuoso saluto a voi, miei confratelli nell’episcopato: a te, Donato, fratello e padre, per il dono della tua costante e discreta presenza e a voi, fratelli Bruno e Franco, che oggi ho la gioia di incontrare per vivere insieme questo momento di fede e di festa.
Saluto uno ad uno, voi cari amici presbiteri. Sto toccando con mano che la distanza affina e rende ancora più preziosi i nostri legami. Un ben trovati a voi tutti, carissimi fedeli. Grazie per la squisita accoglienza di oggi. Un deferente saluto alle autorità presenti. Grazie per il servizio che con senso di responsabilità rendete alla comunità civile.
Questa celebrazione è impreziosita dalla presenza di ciascuno di noi. Insieme, questa mattina, formiamo un’unica assemblea, tanto più coesa, quanto più possiamo confidare nel dono della preghiera reciproca. Pregare, affidarci al Signore, è una possibilità che Egli stesso ci dona, soprattutto quando ci esorta a fidarci e a non avere paura di Lui. Proprio nella preghiera il nostro cuore si apre alla speranza, all’unica che può rimanere in piedi in ogni situazione.
Se, infatti, addirittura “due passeri”, che per noi valgono solo un soldo, entrano in un progetto più grande, tanto più noi siamo custoditi da lui e protetti dalla sua presa tenera e forte. Siamo felicemente sorpresi che il vangelo ci ricordi che valiamo “più di molti passeri”, soprattutto quando la storia e la cronaca ci dimostrano crudelmente che nelle dinamiche relazionali l’uomo spesso vale molto meno di “due passeri”, anche meno di uno solo di essi. È il caso, per esempio, del destino ingiusto e spietato nel quale sono coinvolti molti indifesi nei recenti conflitti, un dramma aggravato dall’omertà dell’opinione pubblica che maldestramente tace l’amaro fatto che quei conflitti nascono proprio dentro casa nostra.
Un accreditato quotidiano, come L’Avvenire, pochi giorni fa riportava la notizia che l’Italia, con la complicità delle nostre leggi, purtroppo, ha inviato in Israele materiali-chiave per la fabbricazione di esplosivi e armi: quasi 6.000 tonnellate di nitrato di ammonio, ingenti quantità di trizio, che è un materiale radioattivo utilizzato per la produzione di armi termonucleari, 13 tonnellate di lavorati metallici.
A volte basta avere un’idea diversa, una fede diversa per eliminare l’altro e per smentire il vangelo. Davvero l’uomo vale così poco? C’è qualcosa che spetta all’uomo in quanto uomo, ma quando sta per essere valicato anche questo limite non negoziabile, capiamo di non potercela fare con le nostre sole forze o con le nostre logiche e sentiamo l’urgenza di affidarci a Qualcuno che sbrogli la matassa del non senso, nella quale ci troviamo spesso intrappolati. Sarà Dio, infatti, a rassicurarci con la promessa che, anche quando nella storia fa irruzione il dramma, non è mai la fine.
Sta qui la lezione dei Martiri di Otranto, i quali hanno soppiantato la cruda fatalità di una situazione avversa con l’audacia di un atto di totale fiducia nel Signore, che, con il ‘sì’ pronunciato sulla croce, era diventato il loro “caso serio”, la loro certezza più grande, decisamente anteposta alle lusinghe che venivano loro offerte. L’evento del 1480, che oggi celebriamo, ci dice fin dove può spingersi la fedeltà umana e trova nel vangelo i motivi di un’autentica comprensione. Proprio la pagina del vangelo che abbiamo appena ascoltato, infatti, ci ricorda le chiare parole di Gesù: “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli”.
“Riconoscere me” traduce il termine greco “omologhein”, cioè “dire insieme”, “dire le stesse cose”, “assomigliare a lui”, anzi nel testo, letteralmente, c’è scritto “assomigliare in Lui”, forzando certamente la grammatica italiana, ma riuscendo ad esprimere in modo forte l’intensità della relazione tra il Signore e il vero discepolo.
Tanto che la fedeltà del discepolo rimanda a quella di Dio, di cui è il fondamento. Il martirio spiega bene questo, perché è un vero atto di fede, un fiducioso atto di speranza e un radicale atto di carità al “sì” che Dio che dal mattino di Pasqua ripete ad ogni creatura umana senza mai stancarsi.
La testimonianza dei Martiri, perciò, non ci autorizza a sostare nella retorica dell’enfasi storica, ma diventa un forte sprone a leggere la loro ora come l’ora della prova e, di conseguenza, come l’ora della verità. Un’ora non molto diversa da quella che, in fondo, prima o poi arriva per tutti.
Nella mia ancor breve esperienza nella Terra della Capitanata, a proposito dell’ora della prova, da due anni in qua, ho memorizzato la data del 30 luglio 1627, giorno in cui, un’ora prima di mezzogiorno, un devastante terremoto rase al suolo la città di San Severo, causandone quasi 5000 vittime. Una data ancora oggi tristemente ricordata. Un momento che ha segnato per sempre la storia di quella terra, che, pur tra le non poche e ben note criticità, ha grandi risorse e una gran voglia di riscatto.
Ma esistono – lo sappiamo – le prove quotidiane, quelle nascoste, che segnano ugualmente la vita di ciascuno, senza assurgere agli onori della cronaca e sfuggendo addirittura anche alle vetrine dei social. Proprio davanti a queste prove sommerse, non di rado, sorgono domande senza risposta e scoppiano manifestazioni di rabbia, accanto ad inconsolabili momenti di sconforto.
Davanti a ogni tipo di prova la nostra fede non presenta risposte teoriche, non fa ricorso a indiscutibili universali, tanto belli, quanto astratti; ci esorta, invece, a scorgere dentro a ogni pagina della storia la filigrana di una salvezza già in atto, dalla quale siamo raggiunti proprio ora, proprio in questa messa. In questo momento, infatti, non siamo soli, possiamo metterci in ascolto, il Signore accoglie la nostra umanità e la trasfigura, facendosi presente e donandosi totalmente, nonostante le nostre ferite e i nostri tradimenti. Chi ne fa l’esperienza, sa che il Signore non lesina mai con il suo amore e trova sempre il modo di farsi presente a chi sa attendere. A chi sa attendere…
Lo scorso anno ero con il gruppo dei seminaristi in Albania, nella città di Scutari. Ed eravamo con una coppia del posto a visitare l’ex carcere della polizia segreta “Sigurimi”, responsabile della difesa del regime di stato e della repressione anche violenta di ogni forma di opposizione politica. Un luogo questo, attiguo al Monastero delle Clarisse, partite da Otranto 22 anni fa. La curiosità di una lettura diversa di cose a me note, mi spinse a chiedere a questa coppia se e come avesse vissuto, sia pur a distanza, la visita di Giovanni Paolo II a Otranto, il 5 ottobre 1980, e, soprattutto, quale era stata la ricaduta del fatto che il papa nell’omelia avesse fatto riferimento ai martiri dell’Albania. La risposta emozionata, e che, non vi nascondo, emozionò anche noi, fu questa: “Appena abbiamo sentito che il papa parlava dei perseguitati in Albania, abbiamo detto in lacrime: “il papa si è ricordato di noi! Sa che ci siamo! La Chiesa non ci ha dimenticati!”. E se la chiesa non dimentica, ancor meno dimentica il Signore. Anche Lui sa che ci siamo!
Siamo noi, piuttosto, che non dovremmo dimenticare mai questa verità, come ci urlano i martiri di ieri, i Maccabei o gli Idruntini, e gli innumerevoli martiri di oggi, che della fedeltà di Dio hanno fatto il baricentro della loro esistenza. Essi hanno scelto di “rimanere in Lui”, decidendo non tanto sull’esistenza, intrappolata nella cieca ostilità dell’aggressore, ma sul senso della loro esistenza. I martiri rifiutano anestetici, non cercano scorciatoie e sono pronti persino a sostare nelle conseguenze dei gesti altrui, non portandone però la responsabilità.
Non sono disposti, infatti, a contrabbandare la sopravvivenza fisica con lo svuotamento della propria coscienza.
Nei persecutori c’è certamente frenesia esteriore, ma staticità interiore. I martiri, invece, che hanno le mani legate, interiormente sono liberi e vivi, non cadono e restano pienamente uomini fino alla fine, come Antonio Primaldo che, “unus pro omnibus”, come ricordava il Galatino nel 1524, professò quella fede che lo tenne in piedi fino a quando anche l’ultimo dei suoi compagni pronunciò il suo “sì”.
In ogni martirio, così, anche se la sceneggiatura è scritta dal persecutore, vi è sempre quel margine di improvvisazione che ha il potere di cambiare dal di dentro la trama del copione e, più che agitatori di folle, i martiri entrano nella storia come agitatori di coscienze.
Ricordo che, dopo pochi mesi dalla morte di padre Pino Puglisi, fu invitato per un convegno qui a Otranto, proprio da Palermo, un teologo, al quale volli chiedere quale fosse stato, a parer suo, il motivo per cui era stato ucciso don Pino e la sua lapidaria risposta fu che egli confessava i giovani di mezza Palermo. Sì! Ecco, cosa fa il testimone! Scuote le coscienze!
Ci resta ancora una domanda inevasa: vogliamo davvero essere “riconosciuti” anche noi per non incorrere in una deludente e triste irrilevanza? Vogliamo anche noi incarnare quell’omologhein evangelico, senza lasciare spazio ad equivoci né davanti a Dio, né davanti agli altri? Non è difficile intuirne la risposta alla scuola di Cristo e dei Martiri. Ci vien chiesto, senza giri di parole, di allenarci al martirio. Con un paziente apprendistato. Tutto qui.
La via terra terra ed immediata è quella di adempiere il proprio dovere quotidiano, accogliendo i “colpi di spillo”, come amava ripetere S. Teresina di Lisieux. Accanto ai tanti doni di cui siamo arricchiti, accettare con pazienza le sofferenze di ogni giorno non è sempre facile, ma è l’unica possibilità che ci viene data, misurando la nostra resilienza, forti del fatto che non siamo mai soli.
Non possiamo affidarci, però, alle improvvisazioni, perché agli imprevisti ci si prepara da lontano e l’eroicità dei momenti supremi è anticipata dallo scorrere di giorni nascosti. Giorni, questi ultimi, da monitorare con attenzione, perché, purtroppo, la vita quotidiana ci presenta la ricca casistica dei “passi indietro”, da cui nessuno è immune. Il retrocedere, il compromesso, la paura, le trame di omertà, le convenienze. Anche le persone dei quotidiani “passi indietro” credono in qualcosa e dunque le sono legate, ma non credono al punto di impegnare la vita ed esporla radicalmente.
In alcuni momenti, invece, proprio il martirio, solo il martirio è la maniera più vera, attraverso la quale confessare con forza la propria fede nel Signore ed è, anche se può sembrare paradossale, l’unico modo con il quale un fratello può rispondere al suo aguzzino, considerandolo fratello e amandolo come tale.
La Vergine Maria che continua a stare accanto alla croce dei suoi figli, ci incoraggi a non indietreggiare davanti alla possibilità di spenderci senza sconti, fiduciosi che questo è l’eterno guadagno di chi ama fino alla fine.
Santi Martiri, vi preghiamo di sostenerci nelle nostre fatiche quotidiane, mentre vi chiediamo perdono se, a causa della nostra povera fede, non ci affidiamo al vostro aiuto, quanto dovremmo. Amen.