Speranza per noi poveri
«A te, che sei del mondo il Creatore,
mancano panni e il foco, o mio Signore.
Caro eletto pargoletto,
quanto questa povertà più m’innamora,
giacché ti fece amor povero ancora».
(Sant’Alfonso Maria de’ Liguori)
Carissimi fratelli e carissime sorelle,
ancora una volta, a Natale, nelle liturgie e dinanzi al presepe domestico, canteremo questi versi del Tu scendi dalle stelle, con i quali Sant’Alfonso ci aiuta a meditare la nascita di Gesù come un mistero di povertà e amore. Vorrei entrare insieme con voi in questo mistero gaudioso.
Gesù, il povero, amante dei poveri
Leggendo i Vangeli, ci si impone una evidenza: Gesù è amante dei poveri. Appena incomincia la predicazione, la prima beatitudine è per loro: «Beati voi poveri» (Lc 6, 20). Gesù si impegna in prima persona per i poveri, sfamando gli affamati, guarendo gli ammalati, restituendo dignità agli emarginati. Dall’equivoco sulla uscita di Giuda dal cenacolo, apprendiamo inoltre che dalla cassa dei Dodici si attingeva per provvedere ai poveri (Gv 13, 20). Al povero della parabola (Lc 19, 19-31), Gesù dà il nome Lazzaro, quello del suo amico caro, il fratello di Marta e Maria, e la scelta forse non è stata casuale, perché probabilmente Lazzaro si trovava in una condizione di fragilità. E l’ultimo giorno Gesù ci giudicherà a partire da quello, che avremo fatto ai suoi fratelli più piccoli, appunto ai poveri di ogni specie, secondo il catalogo delle sette opere di misericordia corporale (Mt 25, 31- 46).
Perché Gesù è così amante dei poveri? Anzitutto perché il Dio di Israele è amante dei poveri, protettore dei piccoli, dei miserabili, dei vinti. I poveri – gli anawim – sono il modello del credente, perché confidano solo in Dio, loro unica ricchezza. La schiera degli anawim include figure come Mosè, Geremia, il Servo di JHWH, Giobbe, l’orante del salmo 22, dai quali Dio trarrà il suo popolo: «Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero. Confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele». (Sof 3, 12 – 13).
E poi senz’altro perché Gesù stesso era povero. È stato povero in senso economico e sociale, in quanto proveniente da una famiglia di poveri, che non ha potuto offrire al tempio se non una coppia di tortore (Lc 2, 24): i poveri, dunque, per Gesù hanno avuto il volto di Maria e Giuseppe.
Ma specialmente Gesù è stato povero della povertà che scaturisce dall’amore. Infatti il primato che Gesù ha rivendicato per se stesso non è stato tanto quello della povertà – e difatti nella storia ci sono state e ci sono persone economicamente e socialmente molto più povere di Gesù – ma il primato dell’amore (Gv 13, 13). Ora, chi ama dona. Dona tutto ciò che è, tutto ciò che ha, tutto ciò che fa, e perciò, avendo donato tutto, rimane senza nulla, come i poveri. L’apostolo Paolo riassume tale mistero, insegnando che Gesù, da ricco che era, si è fatto povero per noi, per renderci ricchi mediante la sua povertà (2 Cor 8, 9), cioè perché ha donato tutto, rimanendo povero, nell’incarnazione, nella croce, e – aggiungerebbe san Francesco – nell’eucaristia. Dunque la povertà è una prospettiva dalla quale si può riassumere tutto il mistero di Cristo, nella sua prima fase, quella dell’abbassamento che precede l’esaltazione.
Beati noi poveri
Anche nella predicazione, il Signore esalta la povertà e i poveri. La prima delle beatitudini suona: «Beati i poveri dinanzi a Dio». A prima vista, sembra che Gesù abbini due elementi che per noi non vanno d’accordo: la felicità e la povertà. Come può essere felice uno che è povero? Non diciamo forse, per indicare qualcuno colpito da una condizione insoddisfacente, che è «un poveretto»? «Beati i poveri!» è invece il proclama, di segno del tutto opposto, che scaturisce dalle labbra di Gesù di Nazaret. Ci troviamo dunque al centro del cristianesimo e della sua alternatività al mondo. Ed oltre che quella centrale, questa beatitudine è la prima, come se Gesù volesse dirci che o partiamo da qui o non potremo compiere alcun passo.
Ora, poiché il povero è colui che non dispone delle risorse necessarie a vivere, dobbiamo ammettere che siamo tutti poveri, in quanto tutto quello di cui abbiamo bisogno di prenderlo dall’esterno. Nella sfera della vita fisica, dall’esterno dobbiamo assumere ossigeno, altrimenti moriremmo per asfissia, e poi dobbiamo ingerire un po’ di cibo e un po’ di bevanda, altrimenti moriamo di fame e di sete. Nella sfera della spiritualità, dipendiamo dagli altri per il nostro bisogno di conoscere, in quanto per conoscere e capire la realtà non possiamo non confrontarci con gli altri, che prima di noi hanno intrapreso questa ricerca. Nella stessa sfera, il bisogno di amare ed essere amati suppone un altro, poiché non possiamo amarci da soli, e dire a qualcuno «ti voglio bene» significa in fondo dirgli «ho bisogno di te», e dunque dichiarargli la nostra povertà.
Nonostante che siamo tutti strutturalmente dei poveri, siamo in continua fuga dalla nostra povertà. Ci stordiamo con mille attività, per non rientrare al centro di noi stessi e prenderne atto. E recitiamo mille ruoli, per essere come gli altri crediamo che desiderino che siamo. Poiché abbiamo paura che la nostra povertà ci renda indegni di essere amati dagli altri, puntiamo a farci ammirare per essere accettati. Ci trasformiamo nel tentativo di essere “diversi”, “migliori”, “perfetti”…
Ma Gesù non è venuto per i perfetti, o per quelli che ritengono di essere tali. Gesù è venuto per i poveri. Gesù viene a dirci che, in lui, Dio ci ama così come siamo; che non abbiamo bisogno di essere diversi per essere amati; che Dio non ci ama a condizione di essere perfetti; anzi, che Dio ha voluto farci così: come siamo usciti dalle sue mani andiamo benissimo e, se abbiamo da cambiare, è perché Dio vuole il nostro meglio. Il cambiamento non è la condizione dell’essere amati, ma ne è la conseguenza. «Figlio mio, figlia mia ¾ ci dice Dio in Gesù ¾ io ti amo infinitamente così come sei. Tu per me sei bellissimo, tu per me sei bellissima!». Posta dinanzi a Dio, allora, la nostra povertà non è più una maledizione, ma una beatitudine, perché ci permette di abbandonarci nella gioia e nella pace dell’abbraccio di Dio.
Venite, benedetti del Padre mio
Gesù il povero si identifica con i poveri, suoi fratelli più piccoli, e perciò sull’atteggiamento verso i poveri verterà il giudizio, su quanto fatto o non fatto a lui, presente nei poveri (Mt 25, 31-46). Recita una delle benedizioni che il celebrante può impartire ai coniugi alla fine del matrimonio: «Sappiate riconoscere il Signore nei poveri e nei sofferenti, affinché essi vi aprano le porte del cielo». Come a dire che ai cancelli del paradiso ci saranno san Pietro ma anche i poveri, e che i cancelli si apriranno solo se qualcuno di questi testimonierà a nostro favore. Quanto più grande sarà stata attraverso la carità la nostra apertura alla grazia di Dio sulla terra, tanto maggiore sarà il godimento della sua gloria nel cielo. Sarà bello, nell’ultimo giorno, essere accolti dal Signore, che ci dirà: «Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25, 34).
Si apre, così, innanzi a noi il grande campo delle opere di misericordia. Papa Leone, nel giorno della festa di san Francesco, ci ha donato l’Esortazione apostolica Dilexi te, dedicata appunto all’amore verso i poveri. Vi invito ad assimilarla e farvene plasmare.
Vi invito inoltre a coinvolgervi nelle iniziative della nostra Caritas Diocesana: la mensa “Buon Pastore”, l’Orto solidale, lo Sportello giuridico, il Centro diurno “Fratelli tutti”, e le altre che sono descritte nel sito.
E anche se non abbiamo possibilità di impegnarci con la Caritas della Diocesi o delle parrocchie, e con le altre associazioni di volontariato, rimane sempre il grande campo degli incontri personali. C’è chi è povero di compagnia, e con una visita possiamo spezzare il terribile sepolcro della solitudine. C’è chi è povero di ascolto, e possiamo regalargli con pazienza un’ora del nostro tempo perché possa trovare un interlocutore. C’è chi è affaticato e oppresso, povero di consolazione, a cui possiamo offrire il conforto della parola del Signore e della nostra amicizia.
Chiudo con le parole con cui il Papa chiude la Dilexi te:
«L’amore cristiano supera ogni barriera, avvicina i lontani, accomuna gli estranei, rende familiari i nemici, valica abissi umanamente insuperabili, entra nelle pieghe più nascoste della società. Per sua natura, l’amore cristiano è profetico, compie miracoli, non ha limiti: è per l’impossibile. L’amore è soprattutto un modo di concepire la vita, un modo di viverla. Ebbene, una Chiesa che non mette limiti all’amore, che non conosce nemici da combattere, ma solo uomini e donne da amare, è la Chiesa di cui oggi il mondo ha bisogno.
«Sia attraverso il vostro lavoro, sia attraverso il vostro impegno per cambiare le strutture sociali ingiuste, sia attraverso quel gesto di aiuto semplice, molto personale e ravvicinato, sarà possibile per quel povero sentire che le parole di Gesù sono per lui: “Io ti ho amato” (Ap 3,9)».
Carissimi fratelli e carissime sorelle, buon Natale!
+ Francesco Neri OFMCap
Arcivescovo di Otranto
