La Legge di Israele è la via per il buon israelita per piacere a Dio, ma il dottore della Legge che interroga Gesù nella pagina evangelica che la Liturgia ci presenta, ha bisogno di maggiore concretezza e gli chiede: “Che cosa fare?”. Gesù lo rimanda subito al cuore della Legge, allo Shema‛ Israel (Dt 6,4ss) che parla dell’amore per Dio sopra ogni cosa e al Lv 19,18 che parla dell’amore per il prossimo.
Questa è una Parola che chiede non solo di essere ascoltata ma obbedita (ob-audire: ascoltare per fare), come dice Mosè nel Libro del Deuteronomio da cui è tratta la Prima Lettura. Per far comprendere che questa necessità è insita alla Parola stessa Mosè dice che essa non è lontana dal credente (in cielo: luogo di Dio; oltre il mare: luogo degli uomini, luogo del male), ma è vicina: nella bocca e nel cuore.
Il maestro della Legge pone una domanda di chiarimento a Gesù che, per tutta risposta, racconta una parabola che vede al centro un uomo incappato nei briganti e che ha bisogno di aiuto. Un sacerdote e un levita, funzionari del Tempio, non gli prestano aiuto per non rendersi impuri e non poter così svolgere il loro servizio sacerdotale, mentre un Samaritano, un uomo che sarebbe lontano dal popolo di Israele, perché eretico, nemico, si fa vicino all’uomo che ha bisogno di aiuto e lo soccorre in diversi modi.
Alla fine della parabola è Gesù che pone una domanda al maestro della Legge, capovolgendo l’uso della parola “prossimo”: nel dialogo iniziale era il maestro che cercava chi fosse il suo prossimo; nella domanda di Gesù si cerca chi diventa prossimo del ferito, da oggetto a soggetto di compassione, dal ricevere al dare. La risposta del maestro della Legge unisce sentimento e azione perché dice nel testo greco: “Colui che ha fatto misericordi per lui”, non solo ha sperimentato la misericordia da un punto di vista intimo, sentimentale, ma l’ha fatta, l’ha vissuta, l’ha resa concreta nelle diverse azioni poste per il bene dell’uomo ferito.