III Domenica di Pasqua – Anno C

Ordinazione presbiterale di don Stefano Antonaci

Dalla prima alla seconda chiamata

Cari fratelli, care sorelle, carissimo don Stefano, la pagina evangelica di questa III Domenica di Pasqua è un trittico composto da tre quadri: la pesca miracolosa, la cena sulla riva del mare, il dialogo tra Gesù e Pietro. Vi sono coinvolti gli uomini, quelli presenti – i sette discepoli, tanti quante sono le Chiese a cui sono rivolte le lettere dell’Apocalisse – e quelli che verranno nella Chiesa, e già sono nel cuore e nella mente di Gesù. Vi sono coinvolte anche le creature: il mare, il fuoco, la notte e il giorno, i pesci e le pecore.

Nel trittico sono descritti alcuni cambiamenti. Dalla notte all’alba. Dal fallimento di una notte di fatica inutile, perché spesa dai discepoli senza Gesù, ad un’impresa che ha uno straordinario successo, perché diretta da Gesù. Dal vuoto delle reti ai centocinquantatre grossi pesci (che mistero affascinante questo numero annotato e comunicato dall’evangelista…). Da una prima pesca miracolosa, quella del Vangelo di Luca (5,1-11), nella quale però le reti si rompevano, ad una nuova pesca miracolosa in cui le reti non si spezzano. Cambia il lavoro: Gesù da falegname diventa cuoco, Pietro da pescatore diventa pastore. Soprattutto, si passa dalla prima chiamata alla seconda chiamata di Pietro.

Una storia d’amore

Come in tutta la relazione tra l’uomo e Dio, anche in questa pagina ci sono gli elementi dell’amore.

C’è il riconoscimento che Gesù è il Signore, cioè è colui per cui vale la pena di vivere e morire, colui che ci offre la comunione con Dio e la vita eterna. Il discepolo che Gesù amava, o – potremmo anche dire – il discepolo che si sentiva amato da Gesù, si accorge che Gesù è presente, per via di una conoscenza che non passa dai sensi o dalla mente, ma dal cuore – come dice la stessa parola “accorgersi” –, la conoscenza stessa dell’amore. Anche Pietro è il discepolo amato da Gesù, a cui il Signore chiede anzi un supplemento di amore: «Mi ami tu più di costoro?». È il tratto fondativo del sacerdozio, che scaturisce dallo sguardo di predilezione, con cui Gesù chiama alcuni a dedicarsi come lui totalmente al servizio della Chiesa.

C’è il primo impulso dell’amore, quello a dar da mangiare, a sostenere l’amato con il cibo. Il Risorto organizza ancora una volta una cena per i discepoli. Il compito di Pietro è pascere le pecore, cioè procurare loro il pasto. L’amante gioisce di far mangiare le persone amate, e mi piace qui citare quello che Papa Francesco diceva essere il suo film preferito, cioè Il pranzo di Babette. Offrire il cibo è donare la vita all’amato. Il sacerdote offre il cibo, che è Gesù stesso nel Vangelo, poiché l’uomo vive della Parola che esce dalla bocca di Dio, e nell’Eucaristia, che è il Pane vivo disceso dal Cielo.

Dopo il cibo, c’è il lavoro, che è la forma propria con cui l’uomo sta al mondo, partecipando all’opera del Creatore, ed è anch’essa una forma d’amore, perché con il lavoro provvediamo a procurare tutto quanto serve alle persone amate, e ad adattare per loro l’ambiente in cui vivono. Dedicarsi alle pecore significa spendere il tempo insieme ad esse, ma anche organizzare con la mente e con le mani l’occorrente alla loro vita. Ora, nella Chiesa, vigna e ospedale, c’è lavoro per tutti, a cominciare dai sacerdoti lo fanno a tempo pieno, e per ognuno dei battezzati. Come insegnava don Tonino Bello, occorre indossare la tunica battesimale in fabbrica e la tuta da lavoro in parrocchia.

E così, dopo il cibo e il lavoro, arriviamo ad un altro elemento specificamente umano, che è il vestito. Tra tutte le specie viventi, come i pesci e le pecore, solo noi uomini indossiamo un vestito, che è insieme funzionalità ed estetica. Gesù dice a Pietro che, mentre da giovane si vestiva da solo, da vecchio lo avrebbe vestito qualcun altro, con riferimento alla crocifissione. Infatti, l’amore esige un prezzo, l’amore è dove si è pronti a soffrire, dove si è pronti anche a morire. L’amore dona la forza ma anche la debolezza, dona la vita ma anche la morte. L’amore dona tutto. I sacerdoti indossano speciali vesti liturgiche – il camice, l’amitto, la stola, la casula – che non sono un addobbo ma una memoria costante del dolce giogo pastorale, che abbiamo assunto. Commentandone durante la Messa Crismale del 2013 la derivazione dalle vesti liturgiche di Israele – l’efod sulle spalle e il pettorale su cui erano incisi i nomi delle tribù di Israele –, Papa Francesco ci ha insegnato: «Ciò significa che il sacerdote celebra, caricandosi sulle spalle il popolo a lui affidato e portando i suoi nomi incisi nel cuore. Quando ci rivestiamo con la nostra umile casula, può farci bene sentire sopra le spalle e nel cuore il peso e il volto del nostro popolo fedele, dei nostri santi e dei nostri martiri, che in questo tempo sono tanti!». È quanto ha fatto in questa cattedrale, l’11 agosto 1480, il nostro arcivescovo Stefano Pendinelli, il quale attese il martirio vestito dei paramenti sacri e con le insegne vescovili, poiché voleva essere riconosciuto: anch’egli come l’apostolo Pietro, ha indossato il vestito del sangue versato, ha glorificato Dio con la sua morte, aprendo la strada ai nostri gloriosi Martiri idruntini.

Centocinquantatré volte tanto

Carissimo don Stefano, dalla Parola che ci è stata rivolta, traggo tre insegnamenti che ti affido all’inizio del tuo ministero.

In primo luogo, coltiva la relazione personale con il Signore Gesù. Il sacerdozio è un dono, che però, come ogni grazia, attende una corrispondenza: è un dono e insieme una conquista. Dunque anzitutto prega, ritaglia e difendi uno spazio e un tempo per stare a tu per tu con il Signore, per godere la consolazione della sua amicizia e per lasciare che lo Spirito Santo penetri profondamente in ogni fibra del tuo essere. Padre Pio diceva di sé di essere solo «un frate che prega», e vediamo quanta fecondità il suo ministero ha ricevuto appunto dalla sorgente della preghiera.

In secondo luogo, porta il cammino che intraprendi, fino alle estreme conseguenze, quando verrà il tempo della seconda chiamata, e di tutte le altre chiamate che segnano la vita di un sacerdote, fino all’ultima chiamata. Non indietreggiare e procedi sino alla fine. Vorrei donarti le parole che mi ha scritto Papa Francesco nella piccola lettera successiva all’incontro con lui dopo l’ordinazione episcopale. Gli avevo detto che mi ero sentito incoraggiato ad abbracciare la nuova missione dalla sua omelia della Messa crismale del 2023, incentrata sulla seconda chiamata. Il Papa mi ha dunque scritto: «Questa seconda chiamata è il momento benedetto in cui noi, come i discepoli a Pasqua, siamo chiamati ad essere abbastanza umili per confessarci vinti dal Cristo umiliato e crocifisso, e per accettare di iniziare un nuovo cammino, quello dello Spirito, della fede e di un amore forte e senza illusioni. è il chairos in cui scopre che il tutto non si riduce ad abbandonare la barca e le reti per seguire Gesù durante un certo tempo, ma richiede di andare avanti sino al Calvario, di accoglierne la lezione e il frutto, e di andare con l’aiuto dello Spirito santo sino alla fine di una vita che deve terminare nella perfezione della divina Carità».

Perciò, da ultimo, ti trasmetto l’insegnamento di san Francesco ai sacerdoti nella sua Lettera a tutto l’Ordine: «Nulla di voi trattenete per voi, affinché totalmente vi accolga colui che totalmente a voi si offre». Dunque, carissimo don Stefano, non trattenere nulla di te, affinché totalmente ti accolga il Signore, che totalmente a te si offre, mettendosi da ora in poi nelle tue mani, nei segni del pane e del vino. Già ad ogni cristiano Gesù ha detto che per essere suoi discepoli, occorre rinunciare a noi stessi (Mt 16, 24), a tutto ciò che abbiamo, che potremmo o vorremmo avere: padre e madre, moglie e figli, fratelli e sorelle, e persino la vita (Lc 14, 23). Ciò è valido specialmente per un sacerdote. Noi non abbiamo più niente che non sia stato interamente donato a Gesù e che a lui non appartenga. Noi siamo la nostra relazione con Gesù. Noi siamo la missione che Gesù ci ha affidato. Immergiti totalmente in questa relazione e in questa missione, e in esse tu troverai la felicità, carissimo don Stefano: troverai il Signore, troverai i fratelli e le sorelle, troverai il padre e la madre e i figli. Nel sacerdozio vissuto come dono, il Signore ti ricolmerà cento volte tanto. Anzi: centocinquantatré volte tanto. Così sia.

Cattedrale di Otranto, 3 maggio 2025

+ Francesco Neri OFMCap
Arcivescovo