XXV Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

Ci viene proposto lo stesso schema della scorsa domenica: 1. un annuncio di passione da parte di Gesù, 2. un’incomprensione da parte del suo uditorio, 3. un’istruzione ulteriore e approfondita da parte di Gesù. Soffermiamoci oggi sui due detti.

«Se uno vuol essere il primo…»

È il richiamo all’importanza dell’autorità. Oggi viviamo in un contesto sociale che ad una feroce spietatezza in alcuni campi abbina un enorme permissivismo in altri campi. Ebbene la prima verità da ritenere su ciò è che l’autorità è un bene e va esercitata. L’autorità è necessaria. Non vanno i discorsi del tipo: «io voglio essere l’amico di mio figlio, più che il padre». Non va, ed abdicare all’esercizio dell’autorità che ci è affidata è un errore che conduce a conseguenze imprevedibili, oltre ad essere un peccato. L’autorità è un bene e va esercitata. La seconda verità è però che l’autorità va esercitata come servizio, cioè in vista del bene della persona che è affidata alla nostra responsabilità. «Autorità» viene da «augere», che il latino significa accrescere. Autorità dunque non è prevaricare, non è far sentire il peso del nostro potere, ma è impegnarsi per il mantenimento è lo sviluppo dell’altro. È esattamente quello che fa il Signore Gesù. Da perfetto educatore, si è accorto che qualcosa non andava nel gruppo dei dodici, ha percepito che si trattava di un argomento importante sul quale non era possibile chiudere un occhio, attende il momento giusto e, al riparo da orecchi indiscreti, riservatamente, comincia con l’interpellare gli apostoli, affinché potessero anzitutto esprimere quello che avevano dentro. Da questo, Gesù prende le mosse per il suo ammaestramento, e – questa è appunto l’opera formativa – dal male trae un bene, da un errore trae la luce per il miglioramento.

«Chi accoglie uno di questi piccoli…»

Il gesto di Gesù, che mette nel mezzo un bambino tenendolo abbracciato, ci può ispirare anzitutto commozione per l’affettuosità materna che il Signore rivela. Non dobbiamo però smarrire la dimensione sconcertante di questo Gesù. Nella cultura ebraica, infatti, come la stessa Bibbia documenta, il bambino era visto con una certa negatività, quasi come un piccolo animale selvatico da addomesticare, trattandolo con durezza. Inoltre, il bambino contava molto poco dal punto di vista sociale. Bisogna guardare all’oggi, a vaste zone dell’Africa e dell’America Latina, dove un bambino non vale niente, e si è sviluppato il tremendo fenomeno dei «bambini della strada». Mettere un bambino al centro della famiglia significava dunque mettere al centro l’ultimo, il povero, il disprezzato. Tuttavia dall’accoglienza al piccolo parte una linea che conduce all’accoglienza di Gesù e quindi all’accoglienza del Padre. Chi accoglie il piccolo, accoglie Dio! Il piccolo in ogni sua forma è un luogo di incontro con Dio! Certo, ci vuole un cambiamento radicale degli schemi, per comprenderlo. È quanto rievoca di sé Francesco d’Assisi, il quale – dalla primitiva ripugnanza verso il lebbroso – passò a baciarlo, cioè ad accoglierlo dentro di sé. Da quel momento – rievoca egli nel Testamento – quello che gli sembrava amaro, gli si convertì in dolcezza dell’anima e del corpo.

Possiamo allora dire che ci sono due modi di fare la comunione, il primo sacramentale, nella celebrazione eucaristica, ed il secondo attraverso il piccolo. Possiamo anche dire che i due modi sono complementari, che il primo deve spingere al secondo, che il secondo è la verifica del primo, perché nutrirci di Gesù nell’eucaristia significa progredire nel suo amore, che era privilegiante verso tutti i piccoli.

+ Francesco Neri OFMCap
Arcivescovo