In occasione della 99esima Giornata Missionaria Mondiale (GMM), vi invitiamo a leggere la testimonianza di Mons. Angelo Massafra OFM, Arcivescovo Emerito di Scutari-Pult (Albania), rilasciata durante il ritiro del clero dell’Arcidiocesi di Otranto in data 17 ottobre 2025 presso Santa Cesarea Terme.
Cari confratelli,
vi saluto tutti, a partire dal vostro Arcivescovo, Padre Francesco, che ringrazio per l’invito rivoltomi, e lo faccio con le parole che san Francesco esortava noi frati ad usare: il Signore vi dia pace.
Siamo nel mese di ottobre, tradizionalmente dedicato alla preghiera ed alla sensibilizzazione all’opera missionaria della Chiesa e vengo a voi proprio come vescovo missionario dal 1993 al gennaio 2025 in servizio presso la Chiesa di Albania, ormai in pensione. Si capisce: in pensione nel senso canonico del termine, ma non nell’attività che intendo portare avanti fino a che il Signore mi darà forza. Considero, perciò, questo nostro incontro proprio nell’ottica del dono che il Signore mi fa di continuare ad essere al suo servizio nella Chiesa.
La natura di questo appuntamento è di spiritualità: non ho quindi la presunzione di grandi discorsi di natura teologica, quanto piuttosto, come direbbe san Paolo, non vengo a voi “ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Ritengo infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Vengo in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; non con discorsi persuasivi di sapienza, ma con la manifestazione dello Spirito e della sua potenza” (cfr. 1Cor 2,1-4).
La manifestazione dello Spirito! Quello Spirito cui fui affidato da san Giovanni Paolo II il giorno della mia ordinazione episcopale, quando seppe che ero ordinato per l’Albania che egli aveva visitato appena 4 anni prima quando il 25 aprile del 1993 aveva ricostituito la gerarchia totalmente distrutta dal regime comunista e ateo di Enver Hoxha. Dunque, il mio intervento intende essere soprattutto un racconto della mia esperienza missionaria animata, appunto, dallo Spirito Santo.
Comincio col dire che ho sempre avuto la vocazione missionaria sin dai tempi della formazione iniziale, quando ancora nei seminari e nei collegi serafici c’era la buona usanza della lettura spirituale: i racconti delle grandi epopee missionarie si collegavano nella mia mente al desiderio di attuarle in quella terra dei miei padri (sono arbëreshë di san Marzano di san Giuseppe) della quale, però, si sapeva ben poco a causa della cortina che il dittatore le aveva costruito intorno. Unica breccia era il segnale di Radio Tirana che i nostri apparecchi radiofonici riuscivano a captare, invece, molto bene.
Perciò, appena caduto quel muro, a poca distanza temporale dalla caduta del muro di Berlino, il mio sogno si andava concretizzando e subito cominciai con brevi esperienze (1990-1992) in quella terra che vidi totalmente distrutta fisicamente e spiritualmente. D’altra parte anche la vostra Arcidiocesi ha avuto un ruolo determinante in quei primissimi anni ’90, grazie anche agli interventi del compianto don Giuseppe Colavero e la sua Agimi-Caritas.
A cosa mi stava chiamando lo Spirito? La risposta: Charitas Christi urget nos! Alla richiesta di aiuto che veniva dal mio Ordine religioso partii senza indugio con l’incarico di maestro dei novizi a Lezhe, impegno che si accompagnava anche al parrocato in una delle zone collinari del centro-nord Albania, tradizionalmente cattoliche: Troshan e Fishta.
La sfida non era affatto semplice: la Chiesa di fatto non c’era più; solo pochi religiosi ancora in vita, reduci dal carcere, le cui porte si erano aperte da sole alla caduta del regime, come nell’esperienza di Pietro e di Paolo narrata dagli Atti. Praticamente, lo Spirito aveva dato il via: a noi il compito di incamminarci per questi sentieri sterrati e pieni di buche (e non parlo solo di quelli fisici!).
Questi religiosi si erano immediatamente dati da fare per radunare i cattolici, ripristinando i pochi ambienti ancora rimasti in piedi dalla furia distruttrice, recuperando le formule tradizionali di preghiera che, durante i 27 anni di ateismo conclamato, i più fedeli avevano custodito con coraggio. Forse non tutti voi sapete che se le famiglie volevano recitare il Rosario non solo dovevano mettere di guardia qualcuno per evitare incursioni, ma dovevano anche mandare a letto i più piccoli per evitare che, se interrogati dagli insegnanti, con la loro semplicità mettessero in pericolo l’intera famiglia, in quel caso destinata al carcere o alla deportazione.
Cosa fare per questo “piccolo resto”? Insieme ad altri religiosi missionari pensammo sin da subito alla formazione. Costituimmo così una piccola, ma funzionale scuola per catechisti, coinvolgendo i più volenterosi alla cooperazione con i missionari per formare le nuove generazioni alla fede. Credo che in quel frangente abbiamo realizzato la sinodalità ante litteram in tutte e tre le sue dimensioni: comunione, partecipazione e missione. Comunione tra noi missionari di diverse spiritualità e con i religiosi albanesi ancora in vita, partecipazione dei laici al nostro lavoro, loro coinvolgimento nella nostra missione, o meglio alla missione della Chiesa.
Mi chiedo e vi chiedo: bisogna aspettare situazioni disperate per essere capaci di sinodalità? E la situazione attuale delle nostre comunità cristiane non sta forse rischiando? È servito a qualcosa veramente il Sinodo sulla sinodalità? Mi permetto di suggerire che forse un maggiore atteggiamento missionario da parte nostra (quello che una volta si chiamava “zelo apostolico”), che sia coinvolgente (quello che una volta si chiamava “apostolato dei laici”), potrebbe evitarci di giungere al peggio. E non parlo dei piccoli numeri, in fondo anche il compianto Benedetto XVI diceva che la Chiesa va verso il “piccolo resto”; parlo piuttosto di qualità, di cristiani innamorati di Cristo, consapevoli della propria vocazione e missione per la realizzazione del Regno di Dio.
Tornando al mio racconto, quello fu anche il periodo in cui fiorivano le vocazioni, anche se tanti vennero a noi solo per avere da mangiare. L’impegno formativo, accanto ad una buona dose di discernimento, si svolgeva anche e soprattutto per le numerose vocazioni femminili alla Vita Consacrata. Per me fu l’apertura di uno squarcio su un mondo, quello femminile albanese, che la dittatura aveva cercato di valorizzare, ma senza fare i conti con una radicata tradizione patriarcale che solo internet, oggi, sta avendo il potere di sradicare… o quasi. Per non parlare del fenomeno della tratta che, soprattutto in quei primissimi anni ’90 ha mietuto tantissime vittime. Ridare dignità alla donna nella società e nella Chiesa albanese non è stato facile: bisognava scontrarsi con la medesima mentalità maschilista anche ad intra.
Permettetemi due minuti di “lamentazioni” e perdonatemi se nel fare verità dovessi per caso mancare di carità. Non pensate che il problema fosse solo albanese: molte congregazioni femminili giunte dall’estero manifestavano la stessa problematica, impedendo in molti casi alle giovani albanesi di emanciparsi e sottoponendole a regole e tradizioni,riempiendo di “vino nuovo” i loro “otri vecchi”, come avrebbe detto Gesù. Si è lavorato tanto in questa direzione e, grazie a Dio, qualche frutto lo abbiamo visto negli anni. Anche da vescovo, poi, mi sono sempre meravigliato di come i miei preti avessero difficoltà a stimare e valorizzare la vita religiosa, soprattutto quella femminile, spesso relegata a ruoli di servizio o, meglio, di servilismo: lava, stira, addobba, sacrestane, funzionarie liturgiche perché il parroco potesse solo arrivare all’ultimo minuto per “leggere il Messale”, animatrici dei canti (tanto sono solo un ornamento facoltativo!!!). Scusate la brutalità, ma il dolore di pastore di fronte a tutto questo è veramente grande, come anche raccogliere le lacrime di queste anime consacrate!
L’unica donna nella lista dei 38 Beati Martiri è Marie Tuci, una postulante delle Suore Stimmatine che, mandata nella sua casa in Mirdita alla chiusura dell’Istituto, fu dapprima incaricata dal regime ad insegnare e poi, vista la pericolosità, fu incarcerata a Scutari dove il colonnello, innamoratosi di lei e rifiutato giurò di renderla irriconoscibile anche ai suoi parenti e così avvenne. Il suo martirio fu di fedeltà a Cristo e alla propria integrità fisica e di donna.
Mi sembra che questo tema stia tornando di attualità anche nella nostra società e nella nostra Chiesa oggi, quindi niente di nuovo sotto il sole. Ma la domanda resta sempre la stessa: a cosa mi sta chiamando lo Spirito in questo frangente? Ed è solo alla luce dello Spirito e del Vangelo che possiamo dare una risposta anche oggi a questo tema così delicato.
Venendo agli anni del mio servizio episcopale, condivido con voi anzitutto il dramma della nomina quando, di fronte al mio netto rifiuto, vidi il Nunzio apostolico inginocchiarsi per chiedermi di accettare. Il tormento fu veramente grande per me che non avevo mai lontanamente pensato di giungere a questo, in una considerazione oggettiva della mia persona che, a confronto delle tante figure episcopali eminenti con curricula di tutto rispetto, scompariva. Posso dire in tutta sincerità che accettai solo per obbedienza.
Nella mia esperienza di formatore, prima in Italia e poi in Albania, ho dovuto fare spesso i conti con questa parolina così spinosa, sia che la si scelga con voto, sia che la si accolga come promessa. Non è facile l’obbedienza: ti rivolta come un calzino, ti fa mettere in discussione tutto di te stesso, ti lascia senza punti fermi, se non l’unico punto fermo: Cristo nel quale si ripone tutta la speranza, come dice l’Apostolo. A parole lo sappiamo: l’obbedienza è libertà, ma nei fatti si fa tanta fatica. Forse è per questo che anche nelle nostre pratiche pastorali preferiamo il “si è fatto sempre così”, perché chiedersi “cosa vuole lo Spirito da me” rischia di capovolgermi l’esistenza. Però cari confratelli, l’ho già detto e lo dirò ancora, essere in stato di missione equivale proprio a dire questo: cosa vuole lo Spirito da me?
Ne ho fatto esperienza personale tanto nel dover fare obbedienza quanto nel dover richiedere obbedienza. Ho avuto belle testimonianze in questo senso, ma anche tanti grattacapi, come si può ben immaginare. E la riflessione che ne derivava era sempre la stessa: quanto siamo in ascolto dello Spirito? Sto riuscendo a far comprendere a questo mio prete o religioso che obbedire è aprirsi allo Spirito per la missione cui si è chiamati?
Il vostro Arcivescovo mi ha chiesto anche di dare testimonianza sui Martiri di Albania del XX secolo, Mons. Vinçenc Prennushi e 37 compagni, beatificati il 5 novembre 2016. Di Marie Tuci vi ho già parlato, oraperò vorrei dire di loro che una delle virtù per cui sono stati beatificati è appunto l’obbedienza. Ma lo sapete che fra loro c’è anche chi fu sospeso a divinis per l’obbedienza? Proprio l’ultimo, martirizzato nel 1974, Dom Mikel Beltoja, ha vissuto anche questa esperienza, ma per il suo zelo che si manifestò poi pienamente nel processo, del quale conserviamo gli atti in cui sono riportate le sue parole infiammate e infiammanti.
Non solo, ma tra la documentazione raccolta in occasione del processo di beatificazione è emerso anche il resoconto di mons. Cozzi, inviato come Visitatore dalla Santa Sede, il quale non si limitò a relazionare sulla Chiesa in Albania ai primi del ‘900, ma intervistò anche molti sacerdoti e religiosi, tra i quali anche alcuni dei nostri Beati. Ebbene, in queste interviste molti di loro lamentarono esattamente la mancanza di zelo, l’attitudine ad una indipendenza eccessiva, relazioni disturbate tra preti e anche tra i vescovi. Perché ve lo dico? Per due motivi: il primo è perché non dobbiamo scandalizzarci di fronte alle mancanze di zelo e di obbedienza, come anche di fronte a relazioni disturbate nel presbiterio, ma il motivo fondamentale, si capisce, è per esortarci a prendere seriamente la missione che ci è stata affidata e che abbiamo accettato con tutto quello che essa comporta, in primis il comandamento dell’amore che tutto motiva.
Avrei molti altri spunti di riflessione ispirati dalla mia esperienza episcopale: le chiese ricostruite o realizzate, la sfida catechistica, quella liturgica, quella giuridica, quella del ricupero delle proprieta’, quella vocazionale e formativa del clero, quella caritativa con le opere a favore dei numerosissimi casi di handicap fisico e mentale, ma non basterebbe il tempo a mia disposizione.
Perciò vi parlo dei “miei” Beati: vescovi, preti, religiosi e laici che hanno dato la vita per Cristo in Albania in un tempo così vicino al nostro e in un contesto che, simbolicamente, è altrettanto vicino a noi. La dittatura, cari confratelli, è facile da vedere se palese, ma non è meno pericolosa di quella più subdola che stiamo vivendo ai nostri giorni sotto tanti punti di vista.Non sono un complottista, ma credo che il pericolo cui va incontro il nostro secolo sia sotto gli occhi di tutti quelli che si lasciano guidare dallo Spirito.
Dico “miei” Beati perché è convinzione comune in Albania che solo grazie al mio impegno e di quello dei miei collaboratori si è potuti giungere alla data del 5 novembre 2016, cui si deve aggiungere anche quella del 16 novembre 2024, quando sono stati beatificati don Gjon Gazulli del clero albanese e padre Luigj Paliq dei frati minori albanesi del Kossovo, ma queste ultime due erano cause storiche slegate dagli eventi della dittatura comunista.
La persecuzione comunista in Albania partì appena il governo italiano ritirò le sue truppe dopo l’occupazione di quella che, nella logica mussoliniana, doveva essere una colonia italiana. Purtroppo, la presenza italiana in Albania, per quanto abbia realizzato anche opere importanti, tuttavia ha, in parte, violentato l’autonomia locale dando adito ad una resistenza partigiana che si è poi presentata al popolo come liberatrice dal fascismo prima e dal nazismo poi.
La presa di potere già nel 1945 fu battezzata nel sangue dei nostri primi Martiri accusati di simpatizzare con il fascismo: in realtà erano patrioti albanesi che in virtù della loro fede cattolica avevano capito la pericolosità del comunismo e perciò lo avversavano. Il gruppo più numeroso, composto da preti, religiosi, un seminarista e laici fu eliminato proprio nel contesto delle prime elezioni fatte passare come libere e, invece, si rivelarono un tranello studiato apposta per far emergere le frange di popolo contrarie al partito popolare ed eliminarle.
Ovviamente era da eliminare chi costituiva un pericolo, le persone di cultura, vale a dire il clero e i centri di formazione religiosa: i seminari, le scuole cattoliche o quelle tenute dai parroci presso le loro canoniche, le riviste cattoliche del clero diocesano e religioso, gli istituti di formazione delle religiose.
Ma non siamo ancora nella fase virulenta: la dittatura di Enver Hoxha, a rileggerla oggi, era studiata a tavolino per apparire dapprima benevola, poi preoccupata ed infine violenta. Così, dopo la prima fase, ci fu la seconda durante la quale fu eliminato il grosso dei nostri Martiri ed anche di tanti altri cristiani il cui nome non conosciamo. Ci fu anche il tentativo di far passare uno Statuto della Chiesa cattolica approvato dal governo in cui si tentava di farne una Chiesa autocefala sganciata dal Vaticano, considerato come il pericolo pubblico numero uno. Anche questo fatto costò la vita di alcuni e il carcere per altri. Era il periodo della collusione con Mosca, dopo aver fallito con Tito di Jugoslavia.
La terza fase, quella della collaborazione con la Cina di Mao Tse Tung, fu quella della rivoluzione culturale che portò nel 1967 alla dichiarazione dell’Albania come primo stato ateo al mondo ed al conseguente decreto di chiusura di tutti i luoghi di culto, distrutti o convertiti ad altri usi. La stessa cattedrale di Scutari divenne Palazzetto dello Sport. Ormai il clero era ridotto al lumicino ed ogni forma di manifestazione della fede, celebrazione dei sacramenti inclusa, era considerata un crimine. La dittatura era assurta a nuova religione!
Ho già fatto cenno alle condizioni di clandestinità coraggiosa cui furono costretti molti cristiani. Grazie al loro coraggio siamo riusciti a conservare molti dei reperti che oggi fanno parte del Museo Diocesano di Scutari, che ho voluto fortemente, non per esporre bellezze materiali, ma la bellezza più grande, quella della fede in Cristo che, da san Paolo (Rm 15) fino ai nostri giorni, l’Albania ha mantenuto incorrotta, lottando contro ogni oppressione: prima quella romana, poi quella lacerante interna alla Chiesa con lo scisma d’Oriente, poi quella Ottomana ed infine quella comunista. Veramente i cristiani cattolici di Albania sono il “piccolo gregge” che amo e al quale ho dato gran parte della mia vita.
Mi porto dietro un cruccio che riguarda anche questa nuova fase della mia vita di vescovo missionario in pensione: molti dei cristiani, ma anche musulmani albanesi sono tali per tradizione, per appartenenza familiare e di clan. Questo in parte è positivo perché determina anche la loro identità, ma non è positivo per la fede. Ancora oggi, infatti, c’è chi crede non sia indispensabile il battesimo “tanto siamo già cattolici”: e ho detto tutto!
Dicevo che questo cruccio me lo porto dietro perché vedo che anche qui in Italia e in genere in Europa abbiamo lo stesso problema, ma con la tendenza inversa, quella cioè di svalutare la propria fede in nome di una dubbia cultura dell’accoglienza; che non è male, attenzione, ma va fatta bene. Non posso, cioè, abdicare alla mia identità religiosa per permettere ad un altro di manifestare la sua; perché se anche lui lo farà, alla fine resteremo entrambi senza identità. E questo è l’inganno ed il pericolo di una dittatura moderna cui stiamo andando incontro molto rapidamente e che vuole proprio la perdita di identità e quindi di senso per poter agire liberamente nella manipolazione delle coscienze. L’aforisma falsamente attribuito a Voltaire recitava: “Io combatto la tua idea, che è diversa dalla mia, ma sono pronto a battermi fino al prezzo della mia vita perché tu, la tua idea, possa esprimerla liberamente”; e già questa sarebbe una prospettiva migliore rispetto a ciò che sta accadendo oggi qui da noi. (dittatura del pensiero unico- secolarismo – indifferenza religiosa – ignoranza religiosa!)
Vien da chiedersi ancora una volta: cosa ci chiede oggi lo Spirito? Quale missione intende affidare a noi, Chiesa del XXI secolo, qui ed ora? Ognuno di voi conosce bene la realtà a cui è stato inviato: iniziate sempre ogni vostra giornata ed ogni vostra attività con questa apertura allo Spirito ed accogliete i segnali che Egli non mancherà di inviarvi.
Affido voi, il vostro Arcivescovo, le vostre comunità cristiane, l’intera Arcidiocesi ai nostri Beati Martiri di Albania, compagni nel martirio dei Ss. Primaldo e compagni, patroni di questa Arcidiocesi. Questo beato sodalizio vi ottenga ogni bene da Dio Padre, la piena conformazione a Cristo Buon Pastore e la grazia santificante dello Spirito.
Al Dio Trino ed unico l’onore e la gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen.